lunedì 21 dicembre 2009

chiuso per ferie


Più mi sforzo e più mi sento svuotata, ho esaurito la sagacia e l'inchiostro.
Non ho nemmeno voglia di descrivere come sia andato, il famoso esame. So solo che ora, per principio, getterò la fotocopiatrice e mi metterò a scrivere tutte le copie degli atti a mano, che ci ho preso gusto. Ah, butterò anche via le banche dati ed implorerò il cliente di darmi informazioni vaghe e sibilline circa il proprio caso.
Eviterò poi di fare la pausa pranzo e la pausa sigaretta. E anche di andare in bagno. E se mai andrò in bagno, ora ho anche imparato che per essere dei buoni professionisti non ci si può lavare le mani dopo averla fatta.
Dimenticavo! Se riesco assumerò degli uomini in divisa, di un corpo qualsiasi delle forze dell'ordine, che di tanto in tanto passino a guardarmi con fare minaccioso o a farmi domande del tutto illogiche (tipo cosa significa 22/01/198_ accanto al nome) solo per distrarmi.

Ah, il tizio del banco davanti no, quello non lo voglio, c'è un limite a tutto, che diamine!

giovedì 10 dicembre 2009

Per l'appunto.

Così, giusto per continuare a cercare un diversivo che distolga i miei pensieri dall'esame, oggi parlerò dell'esame.
Essendomi imbattuta in un riepilogo assai gustoso dei pratici suggerimenti dell'ultimo minuto per sperare in una buona riuscita dell'esame (o, anche, nella non fuoriuscita dall'aula d'esame causa espulsione -ah, per chi non lo sapesse- dato che a Brescia canta Mister Eros Ramazzotti, l'aula è stata trasferita di trenta chilometri) mi sono venuti un pò di dubbi...
Leggiamoci il paragrafo numero tré dell'articolo in questione:

3. I segni di riconoscimento
L’utilizzo di due penne di diverso colore (blu e nera) per la stesura della prova scritta non può essere di per sé qualificato oggettivo “segno di riconoscimento” impeditivo alla correzione, con la conseguenza dell’esclusione per non valutabilità (TAR Sardegna, 11 dicembre 2008, n. 2158).
La questione ha riguardato una candidata di un pubblico concorso, esclusa dalla selezione poiché la Commissione aveva accertato che l’elaborato era “stato scritto nella prima pagina utilizzando in parte la penna nera e in parte la penna blu e per il resto proseguendo con la penna blu”.
Il TAR ha deciso che l’utilizzo di penne con colore diverso, nel caso in esame, non può essere idoneo ad integrare un “oggettivo” ed “inequivocabile” segno di riconoscimento, anche perché può esser spiegato in termini molto semplici: “che la concorrente avesse deciso di elaborare la “bella copia” con la penna nera e che, in corso di scrittura, la penna biro (non fornita dalla commissione) si sia “esaurita”, con conseguente necessità di “continuare” il tema con altra penna”.
Ovviamente il precedente può essere utilizzato per via dei colori consueti delle penne:
non mi avventurerei a scrivere in verde o rosso, poichè i colori consentiti dalla normativa sui concorsi sono appunto il nero e il nero bluastro delle comuni penne biro.
Ancora, il TAR Sardegna ha richiamato una conforme giurisprudenza (T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. II,
sentenza 10 giugno 2008, n. 642; T.A.R. Basilicata Potenza, 11 luglio 2007, n. 489), secondo cui “nelle procedure concorsuali la regola dell'anonimato degli elaborati scritti, benché essenziale, non può essere intesa in modo tanto assoluto e tassativo da comportare l'invalidità delle prove ogni volta che sussista la “mera possibilità di riconoscimento”, atteso che non si potrebbe mai escludere a priori la possibilità che un commissario riconosca la scrittura di un candidato, sebbene il relativo elaborato sia formalmente anonimo; ne discende che la regola dell'anonimato deve essere intesa nel senso che l'elaborato non deve recare alcun segno che sia «in astratto» ed « oggettivamente» suscettibile di riconoscibilità”.
Quindi la numerazione delle pagine, o i segni grafici che staccano le parti dell’elaborato (asterischi e simili) sono probabilmente da evitare per prudenza, ma non possono provocare l’annullamento.

Uao, adesso è tutto più chiaro. Mannaggia, mi ero abituata a staccare i diversi paragrafi con un rientro della prima riga. Quindi: o mi espellono, o non mi ocrreggono il compito, o mi tagliano le mani. (Anche se dubito ci sia qualcuno, in qualchessia commissione, a cui interessa riconoscere il mio compito...)

Ma non è tutto qui. Leggiamo il paragrafo cinque, di grande incoraggiamento:


§ 5. Il Pitepraticantropo
Il Pitepraticantropo era sapiente, anzi, dottore della legge; frequentava il tribunale, facendo pratica forense, ma restava fondamentalmente un essere allo stadio primitivo sulla linea evolutiva verso un futuro professionale tutto da realizzare.
Portava giacca e cravatta d’ordinanza ma non camicia e pantaloni, sicché il suo pelame scuro contrastava vistosamente sotto la stoffa di qualità.
Aveva iniziato la pratica frequentando il vecchio Palazzo di Giustizia, del quale aveva molto apprezzato la collocazione urbanistica nel centro storico della città in prossimità della sede universitaria e degli altri palazzi pubblici funzionalmente collegati (conservatoria, registro, intendenza di finanza, prefettura, municipio ecc.).
L’austera funzionalità dell’edificio sembrava promettere che i processi sarebbero stati altrettanto sobri ed efficienti. Si entrava nell’atrio e si aveva a disposizione una raggiera di corridoi che conducevano razionalmente a tutti gli uffici, rendendoli facilmente individuabili e raggiungibili dall’utente.
Persino in verticale, la volta aperta attraverso ciascun piano spalancava la visuale su tutto il palazzo e da vero e proprio “foro”, favoriva le relazioni tra gli avvocati e con i clienti. Era poi ovvio che tutti gli uffici giudiziari si trovassero lì raccolti nello stesso palazzo.
Poi, con i consueti ritardi delle opere pubbliche, era entrato in esercizio il nuovo Palazzo. Funereo emiciclo di marmo grigio e nero decentrato tra le circonvallazioni intasate dal traffico, dove si esercitava il mestiere più antico del mondo, voltava le terga alla città e volgeva la fronte alla brughiera incolta antistante la ferrovia.
Il Pitepraticantropo lo percorreva rasentando i muri sulla striscia bianca, evitando la corsia di marmo rosso centrale, che gli pareva riservata a chi ne sapeva più di lui. E gli sembrava di percorrere una metafora edilizia dei processi che vi si celebravano, sempre pendenti e mai conclusi, che duravano e duravano, ma erano sempre ad un punto indefinibile, e troppo spesso terminavano senza aver risolto il problema per il quale erano cominciati.
Ed il terzo piano daccapo un po’ più su ma uguale al precedente, come un processo d’appello; il quarto poi ancora uguale, come un giudizio di rinvio.
Ma quello che più lo colpiva era la dislocazione dell’ufficio del Giudice di Pace dall’altra parte della città: non si era trovato posto, in un edificio tanto più grande, nè il Comune era riuscito a reperire un fabbricato meno distante, come lo stesso vecchio Palazzo di Giustizia, vuoto da anni. E, coincidenza impressionante, solo lì aveva visto iniziare e terminare un processo.
Il Pitepraticantropo conosceva una gran quantità di leggi e di decreti, e si sforzava di studiarne sempre più, pur avendo ben in mente l’insegnamento del suo professore di diritto penale, che criticava la congerie normativa imperversante anche in quel delicato settore ammettendo che neppure lui conosceva tutte le fattispecie criminali vigenti, cosa forse impossibile per la mente umana, mentre tale inevitabile ignoranza non era ammessa neppure per il più illetterato dei sudditi; nonostante ciò, egli riteneva comunque suo dovere impararne il più possibile ed in tutti i settori.
Ma era talmente evidente che occorreva urgentemente por mano ad un radicale processo di delegificazione, che non si capacitava come il parlamento si baloccasse con le riforme costituzionali e i massimi sistemi e pensava: una legislazione a misura d’uomo consentirebbe ai più di conoscere i propri diritti ed i propri doveri aumentando la certezza dei rapporti giuridici; ne conseguirebbe una deflazione del contenzioso limitato ai casi di effettivo dubbio sull’interpretazione della legge.
Le poche sentenze sarebbero rese in tempi ragionevoli, promosse da avvocati che sbrigherebbero con inequivoci pareri stragiudiziali la maggior parte dei casi, dedicando il necessario approfondimento al ridotto contenzioso, che produrrebbe giudizi altrettanto approfonditi, a costituire precedenti non contraddittori e di facile reperimento.
Un sistema normativo più semplice, che consentisse a tutti di conoscere e di capire, di esercitare i propri diritti ed adempiere ai propri obblighi, renderebbe possibile individuare e colpire quei pochi che volontariamente agissero illegalmente ed impedirebbe loro di ricattare i propri accusatori.
Un ordinamento del genere libererebbe la pubblica amministrazione dalla pletorica inefficienza nella quale era stata sprofondata, riducendone i costi e gli sprechi; i cittadini farebbero valere i propri legittimi interessi e non scambierebbero o comprerebbero favori.
In fin dei conti non c’era nulla di nuovo da inventare, sarebbe bastato ripercorrere le orme di Triboniano, attuando il lapidario precetto della costituzione Deo auctore, concepito ormai quattordici secoli prima da Giustiniano: “tot auctorum dispersa volumina uno codice ... ostendere”; sarebbe bastato ricordare le notti insonni del Bonaparte, che costringeva i compilatori di quello che chiamava “mon code civil” a riscrivere tutti gli articoli che non risultavano di semplice ed immediata comprensione.
Macchè Napoleone, ma quale Giustiniano, il povero Pitepraticantropo non vedeva di meglio all’orizzonte politico che pallidi burocrati di partito, quando non proprio loschi faccendieri.
E lui, ad onta di tutti i suoi sforzi, rimaneva irrimediabilmente una scimmia.
Un giorno, entrando nel Palazzo, il Pitepraticantropo si fermò perplesso ad osservare i monoliti eretti a sorpresa nell’atrio, e scoccò la scintilla.
Rimase folgorato da un’intuizione: la maggioranza del paese era ormai costituita proprio da pallidi burocrati di partito, se non già da loschi faccendieri, e comunque era in affari con loro, impegnata a costruire inutili monumenti allo spreco e all’inefficienza, sotto la copertura di una superfetazione normativa dolosamente rivolta a peggiorare l’esistente, in una perversa spirale che alimentava il potere degli inetti e dei corrotti.
Il Pitepraticantropo rimase talmente colpito dall’evidenza di quel ragionamento che non si accorse neppure di non essere più tale; aveva camicia e brache, aveva perso il pelo e non era più una scimmia: era diventato un avvocato
[ii].
Che dire... mi sconvolge l'idea questa storiella possa applicarsi a qualsiasi praticante, di qualsiasi generazione, di qualsiasi città..
P.S. Vi segnalo che alla fine dei consigli pratici per gli acquisti, e della cicciosissima storiella, v'era il solito link...No, non voglio cliccare e diventare avvocato in Spagna in sei mesi. Non so lo Spagnolo. Non conosco nessuno in Spagna E SOPRATTUTTO, PIANTATELA DI TELEFONARCI IL GIORNO DELLA PUBBLICAZIONE DEI RISULTATI. GUFI!

martedì 8 dicembre 2009

buonisssssssimi


In questa finta domenica di nebbia in Val Padana, cerco un diversivo ai lugubri pensieri che mi si susseguono nel cervelletto in attesa dell'esame [che, seppur vicino, è solo la prossima settimana: DEVO trovare un diversivo].

Eh già, è ufficiale, è arrivata la covocazione. insulsa. sgrammaticata. ma è arrivata.

Il fatto che per un minuto (forse anche un po' di più) io abbia sperato di non essere stata ammessa a sostenerlo (chennesò, per non aver compilato correttamente il campo con il nome e il cognome o perchè il mio certificato di compiuta pratica, all'improvviso, si era sgretolato nelle mani del commissario, cose così..) non è affatto un bel segno.

Certo, chi vorrebbe sottoporsi ad una prova di sopravvivenza fisica di tre giorni, sulla quale mi sono stati raccontati i peggiori aneddoti e le peggiori nefandezze, e della quale, se va bene, si possono conoscere i risultati (ergo, se ne è astrattamente valsa la pena) dopo un periodo pari a quello necesario per costruire un ponte?!

"ma è per il tuo futuro".. ah, certo si, è vero, il mio futuro..sei mesi qui..se va bene altri sei mesi là
per fare l'orale..altrimenti qualche anno qui..qualche anno là..ho la sensazione che quando comincerò a lavorare e fare progetti per il futuro, il futuro sarà già passato..

Dicevamo...ah, sì, DEVO TROVARE UN DIVERSIVO!!!!


Come ieri, che per fare stare buoni i bambini, dopo che si sono messi in due a suonare una chitarra...(è mai possibile che la biblioteca sia chiusa di lunedì pomeriggio?) abbiamo preparato i biscotti di Natale [io non amo il Natale, odio i canti di Natale, le smancerie di Natale, i gingilli di Natale...MA adoro preparare biscotti].

La ricetta non ve la posso dare, non è che sia segreta, è che abbiamo messo nell'impasto tutto quello che c'era in cucina -senza considerare cosa precedentemente giaceva sulle manine impiastricciose di mick che, francamente, non voglio conoscere- tra cui limone, cannella, noci, cioccolato, cocco, canditi.. ah, si, forse anche un po' di farina, di zucchero e di burro..

Abbiamo impastato ben bene, creato delle forme assolutamente raccapriccianti e messo il tutto in forno, pieni di speranza.
Dopodiché siamo andati tutti felicici a vederci un cartone animato e gli abbiamo lasciato prendere fuoco. erano praticamente carbonizzati.
Insomma, buonisssssssssimi.


Stamattina li ho trovati nella ciotola del gatto insieme ad un po' di latte..ed insieme al gatto, affamatissimo e decisamente contrariato.